Corpo

Scolpire il (proprio) tempo – Scolpire il (proprio) corpo

Scolpire il (proprio) tempo – Scolpire il (proprio) corpo

Cimentarsi con l’autoscatto significa avventurarsi nella dimensione del corpo e, in definitiva, in una delle più solide forme delle arti classiche, la scultura.

Fotografare il corpo, il proprio corpo, permette di lavorare con il rilievo delle forme, la tridimensionalità, di andare alla ricerca di uno spessore superando il limite della dimensione piatta e bidimensionale della fotografia.
La corporeità della scultura fotografica risponde meglio alle esigenze di rendere plastico un discorso relativo alla questione femminile, improntato all’uso, troppo spesso manipolato, del suo corpo.

Che cos’è il corpo? Il corpo di una donna? Quanti fogli/volti/display ha? Se il corpo, secondo la natura biologica, cambia nel tempo, non può essere definito una volta per tutte nella durata di una vita. Quanti corpi abbiamo dunque? Come esprimerli? Il progetto fotografico di Serafina Figliuzzi prende le mosse dalla considerazione della dimensione temporale e spaziale dell’essere umano, soprattutto della donna.

Parimenti, il corpo agisce in uno spazio, trova modalità in una prossemica della distanza/vicinanza agli altri esseri senzienti e in un contesto di presenza/assenza sociale e personale, come veicolo di ricerca e autoanalisi attraverso il medesimo tempo e la medesima dimensione spaziale per andare contemporaneamente nell’altro da sé.

Il corpo, nelle immagini della Figliuzzi, è come linguaggio di secondo tipo che corrisponde alla comunicazione non verbale ma che trova il suo verbo proprio. È un corpo che vuole liberarsi, imbrigliato com’è da secoli di una “cultura” della sottomissione, da regole imposte da altri, da religioni o ideologie soffocanti ed è un corpo evanescente, evocativo di frammenti di memoria che si sommano in un racconto unico che diventa la storia di un donna e di tante donne. Non a caso, il concetto alla base del progetto – la centralità del corpo femminile – è come contraltare alla cultura maschilista e patriarcale. Una cultura che ha visto le donne venir gabellate per secoli e rappresentate più spesso, secondo i dettami più in voga e la volontà dell’uomo, come esseri “perfetti”, longilinei, costretti in forme e usi decisi dall’esterno e votate al silenzio e a svolgere precisi compiti e assumere dei ruoli.

Con le sculture-fotografiche di Serafina Figliuzzi, invece, l’accento è posto sulla plasmabilità, “imponderabilità” della vita nella sua essenza di corpo, corpo femminile al di là del suo aspetto, peso, forma. Vuole essere un recupero di un codice di libertà e liberazione dalle costrizioni sociali.
L’ipotesi plastico-figurativa ha anche un solido fondamento visivo e storico-antropologico, un percorso figurativo lungo secoli: il corpo delle donne nella nostra cultura figurativa ha cambiato spesso canone: le donne, le loro forme, sono state anche “imperfette”, “informi”, hanno presentato parti del corpo in eccesso, costrette a un’“eccedenza” ottica, che prevedeva anche la presenza di cento mammelle, come l’Artemide Efesia, o erano simbolo di fertilità come la Venere di Willendorf.

Oggi, se il parlare di donne in termini di stereotipi è ormai banale, riduttivo, poiché l’arte cerca ed esprime altre cose, deve usare altri parametri, spesso anche inconsci, così il portato delle opere della nostra artista ne incarna lo spirito più libero: la ricerca di quella dimensione di serena accettazione
di sé e delle proprie linee e contorni, e, soprattutto, si muove verso la rivendicazione del diritto di autodeterminarsi, di stare nel mondo e nel proprio corpo senza il rischio di diventarne vittima o oggetto di bullizzazione.
La vita e il corpo non devono più rispondere ai canoni della cultura mainstream, qualunque essa sia.
Oggi finalmente è in corso un processo di emancipazione verso l’accoglimento di ogni tipologia di natura e di ogni forma, sia essa LGBT sia essa up-to-date o tradizionale.

Questo progetto visivo è fortemente evocativo, anche sul piano tecnico, considerando la scelta cromatica minimale, ogni scatto, seppure ben radicato nel tempo della vita moderna, sembra tuttavia fuoriuscire da una dimensione precisa, per stagliarsi nel “senza tempo”, esaltando così quell’atemporalità che il linguaggio artistico e fotografico dell’artista premedita.